Sono convinta che ci siano argomenti sui quali scrivere sia più difficile. Perché si è già detto tanto e perché il rischio di ricadere nel luogo comune è sempre in agguato. Uno di questi argomenti è, senza dubbio, il bullismo. Parola usata e abusata tanto da perdere, spesso, il suo valore per diventare un termine messo qua e là nei discorsi così, tanto per, tanto perché se ne deve parlare.
Eppure è vero. Se ne deve parlare. Parlarne è quanto mai un’urgenza , come un’urgenza è cercare le parole, quelle che portino un sentire sincero ed immediato; quelle che facciano accapponare la pelle e facciano sentire che bullismo è ben più che una parola. E’ logorio quotidiano. E’ dolore inespresso. E’ parole taciute. Giusi Parisi in effetti non parla di bullismo in Io bullo, uscito a fine agosto ad inaugurare per Einaudi la nuova collana Einaudi ragazzi di oggi. Per tre quarti della storia non ne parla.
Lo fa vedere, annusare, assaggiare, ma non ne parla. Non ne parla fa raccontare la storia proprio a lui, Alessandro Caruso, il bullo in persona, che però non sa di essere un bullo. E non lo sa perché per lui bullo non è che una parola, senza troppo senso. Le parole non sono importanti. La cosa importante è non sottomettersi a nessuno e farsi rispettare. Per Alessandro che vive in uno dei quartieri più difficili di Palermo, che ha il papà in carcere, anche se innocente e una vita in generale piuttosto complicata, è una questione di sopravvivenza. Gli insegnanti devono stare al loro posto e i compagni anche, ci mancherebbe. Soprattutto Danilo“u scemu”, che quello non può proprio parlare ed è fastidioso perché gli insegnanti danno sempre a lui tutte le attenzioni. E Walter “U frociu”, quello che va a scuola di ballo. Se alza la cresta bisogna ricordarglielo che è una femminuccia. E fa anche ridere, chiamarlo femminuccia.
Una battuta. Che sarà mai una battuta? E se non fosse che osa sfidarlo, lui non se lo sognerebbe neanche di fare a Caterina quella battuta su sua madre, che fa la prostituta. Alla fine anche a lui dispiace per Caterina e lo sa che la madre è una povera crista che deve fare quel lavoro per campare. Antonio non è un bullo. E’ uno che si vuole fare rispettare. Tutto qui. E in effetti è tutto qui. Ci sono molti luoghi nei quali davvero è tutto qui. Quei luoghi che spesso sono le scuole dove mandiamo i nostri figli e anche le famiglie nei quali li cresciamo. Luoghi dove le parole non contano. Nei quali i silenzi la fanno da padroni. Poi un giorno, proprio nel momento più delicato per le vite dei ragazzi, arriva lei, la De Lisi, la nuova insegnante di italiano, che quando la situazione sembra arrivata ad un punto di non ritorno, dice ai ragazzi una cosa. Una sola cosa: “Rompiamo questo silenzio”. E allora le parole arrivano.
Arrivano come fiumi in piena e rompono gli argini dell’indifferenza e della solitudine. Bullo non è più una parola senza senso. Ora è piena di significati. Così piena che Antonio arriva a chiedersi: “Io sono un bullo?”. Le parole che cambiano il nostro mondo. Le parole come mezzi potenti per abbattere i muri. Le parole quelle piene di facce, odori, sapori e colori nei quali rispecchiarsi.
Queste sono le parole che Giusi Parisi usa in questo libro, che parla, per davvero.